Invocazione a Dio nel dolore
1 Al maestro del coro. Per
strumenti a corda. Sull’ottava. Salmo. Di Davide.
2 Signore, non punirmi nella
tua ira,
non castigarmi nel tuo furore.
3 Pietà di me, Signore, sono sfinito;
guariscimi, Signore: tremano le mie ossa.
4 Trema tutta l’anima mia.
Ma tu, Signore, fino a quando?
5 Ritorna, Signore, libera la mia vita,
salvami per la tua misericordia.
6 Nessuno tra i morti ti ricorda.
Chi negli inferi canta le tue lodi?
7 Sono stremato dai miei lamenti,
ogni notte inondo di pianto il mio giaciglio,
bagno di lacrime il mio letto.
8 I miei occhi nel dolore si consumano,
invecchiano fra tante mie afflizioni.
9 Via da me, voi tutti che fate il male:
il Signore ascolta la voce del mio pianto.
10 Il Signore ascolta la mia supplica,
il Signore accoglie la mia preghiera.
11 Si vergognino e tremino molto tutti i miei nemici,
tornino indietro e si vergognino all’istante.
Appunti per uso personale per una comprensione del salmo
IL DOLORE FISICO E INTERIORE
Un salmo non facile
Cerchiamo oggi di riflettere sul salmo 6, e che comincia: “Signore, non punirmi nel tuo sdegno, non castigarmi nel tuo furore”. Non è un salmo facile da capire e tanto meno da commentare, da approfondire. Chiediamoci, allora, quali sono queste difficoltà, poi cercheremo – in sintesi – di capire che cosa ci dice, come si colloca in questa lettura che andiamo facendo dei salmi, come possiamo viverlo, e quali conclusioni trarne.
È un salmo non facile per parecchi motivi. Ne vediamo alcuni.
Prima di tutto è un salmo che ci parla dell’ira di Dio: “Signore, non punirmi nel tuo sdegno, non castigarmi nel tuo furore”. Non è facile farci una idea di questa ira di Dio; è una cosa che esula dal nostro linguaggio, dal nostro vocabolario ordinario. Come possiamo davvero sentirci invitati alla preghiera da questa menzione così cruda dell’ira, del furore, dello sdegno di Dio?
C’è un secondo motivo per cui il salmo ci appare difficile: sembra che rappresenti come una chiusura di orizzonti sulla vita presente dell’uomo.
C’è quella frase molto strana verso la metà: “Nessuno tra i morti ti ricorda, chi negli inferi canta le tue lodi?”. Sembra che chi recita questo salmo non si preoccupi di un avvenire dell’uomo oltre la vita, ma abbia una visione limitata, una chiusura di orizzonte sulla vita presente. Il Nuovo Testamento ha completamente trasformato questa visione, ponendo chiaramente l’orizzonte della vita dell’uomo nella vita senza fine.
Un terzo motivo per cui il salmo non è facile sta nel suo genere letterario: è un salmo di lamento. Ora questa definizione: “Salmo di lamento”, “lamentazione”, evoca qualcosa di poco simpatico, potremmo quasi dire una lagna, qualcosa che deprime. Perché allora occuparsi di un salmo deprimente?
E infine, ultimo motivo, è un salmo da malato: uno di quelli che venivano composti per essere recitati dai malati, dai sofferenti. Ora, quanti di noi possono dire di avere l’esperienza di una malattia grave, così come è presupposta qui? Chi di noi presume di poter entrare nella dolorosa psicologia di un uomo seriamente malato, tentato di disperazione, di chiusura di sé, di rifiuto degli altri? È una psicologia dolorosa e drammatica che solo chi l’ha vissuta a fondo può descriverla; e certamente chi ha scritto questa preghiera ha vissuto un’esperienza così. Esperienza del malato, dell’anziano solo, che sente la vita venirgli meno, e nessuno lo aiuta: gli pare che tutti gli siano contro, gli vengono dei complessi di persecuzione, di rabbia contro la società.
Sono situazioni vere, ma forse non molti fra noi le hanno vissute, e allora come presumere di poter capire una situazione che purtroppo è vera nella vita, ma che è un po’ un’esperienza limite?
Queste sono alcune tra le principali difficoltà che trovo quando leggo questo salmo. Cerchiamo di rifletterci insieme. Che cosa dice in sostanza il salmo? È un piccolo dramma con tre personaggi: Dio, l’io del malato, del sofferente; i nemici. E anche questo ci fa difficoltà, perché la menzione dei nemici non è ben chiara. Chi sono questi nemici?
Un dramma con tre personaggi
Dunque c’è un uomo in uno stato di grande prostrazione (esteriore e interiore) che si sente come abbandonato da Dio, e grida a lui questo suo stato di abbandono, e nell’invocare Dio si sente ascoltato.
Questa è la sintesi del salmo: un uomo nella prostrazione fisica e morale, che attraverso lo sfogo libero del cuore a Dio, che sente adirato contro di sé, chiede di essere liberato dai nemici, e riceve la parola di salvezza.
Come si colloca questa sintesi nelle letture che abbiamo fatto finora? Abbiamo preso a considerare alcuni salmi che ci parlano della ricerca di Dio, dell’itinerario dell’uomo nella ricerca di Dio, e abbiamo considerato due salmi che ci parlano in positivo di questa ricerca. Il salmo 2, salmo del messia. Salmo che ci rincuora perché il Signore non ci lascerà mai soli. Abbiamo meditato poi anche nel salmo 1, la chiarezza di decisione dell’uomo in questo cammino tra le due vie che determinano la sua sorte, il suo modo di essere sulla terra.
Due salmi che ci hanno mostrato in positivo il cammino dell’uomo. Questo invece ce lo mostra in negativo: è l’emergere delle condizioni di non saper vivere, di non saper cercare Dio.
Come riuscire a capire il messaggio di questo salmo? Credo che sia necessario un discorso un po’ più ampio, per renderci ragione dei due grandi temi che dominano tutta la preghiera dei Salmi.
I Salmi, come sapete, sono 150 e sono preghiere in poesia molto diverse tra loro. Si distinguono in inni, salmi sapienziali, salmi storici (che raccontano la storia del popolo), salmi regali (che parlano del re Messia). Tuttavia, se noi volessimo condensare gli atteggiamenti fondamentali dell’uomo che prega nel salmo, li potremmo definire così: c’è l’atteggiamento del lamento e l’atteggiamento della lode.
Tutta la vita dell’uomo che prega con i Salmi è come permeata da questa realtà del lamento e della lode, che continuamente si alternano come due ritmi di preghiera, come due momenti dell’esperienza diretta che l’uomo fa del dialogo e del rapporto con Dio.
Noi non usiamo, oggi, questo linguaggio per tradurre i due atteggiamenti fondamentali dell’uomo in preghiera; usiamo forse altri vocaboli. Parliamo, per esempio, di preghiera di domanda e di rendimento di grazie, preghiera di richiesta e di ringraziamento. Ma il salterio, con la sua esperienza antica, quasi primordiale dell’uomo, riporta queste due espressioni della preghiera umana alle sue radici, a due realtà ancora più sorgive, che sono appunto la lode e il lamento.
Lamento e lode nella Bibbia
Cerchiamo di capire qual è l’insegnamento dei Salmi nel riportare l’atteggiamento primordiale dell’uomo, nel suo rapporto con Dio, alla forma del lamento e della lode. Cos’è la lode e come il salmo la intende.
La lode nella Bibbia ha soltanto un oggetto: Dio. Non esiste nella Bibbia altro oggetto del verbo lodare se non Dio; quindi la lode è il modo con cui l’uomo si atteggia soltanto verso Dio. Ed è lode nel senso ebraico di esultanza, di movimento entusiasta del cuore, di riverenza, di meraviglia di fronte all’opera di Dio. Questa è la lode biblica; è la lode del Magnificat: “L’anima mia magnifica il Signore e il mio spirito esulta in Dio mio salvatore”; questo è l’atteggiamento fondamentale della lode.
Dunque la lode per la Bibbia è espressione della vita; noi diremmo oggi, forse più filosoficamente: la lode è espressione dell’essere, è meraviglia di fronte all’essere.
Dice il profeta Isaia: “Il vivente ti loda, o Dio, come io faccio oggi”; è la vita che loda Dio, è il vivente che loda. Lode è la dimensione dell’essere fatta coscienza, cioè dell’uomo che si sente vivo e loda l’autore della vita. Per la Bibbia, per i Salmi, lodare è vivere.
E allora non lodare è non vivere, è la morte.
La morte è non lodare Dio, perché non lodare è identico a non vivere, non vivere la vita che è dono di Dio da restituire in lode. La morte intesa nel suo senso negativo, come la intende la Bibbia, non nel senso in cui noi spesso la intendiamo cioè come passaggio ad una vita più alta e diversa, ma la morte come negazione della vita, è non-lode.
La non-lode è la non-vita, è il non essere, è la morte. Ecco allora che il salmo può dire: “Nessuno tra i morti ti ricorda, chi negli inferi canta le tue lodi?”, perché la lode è vita, lodare è vivere, non vivere è non lodare; lode e vita si corrispondono.
L’uomo si sente vivo e sente pulsare la vita in sé con gioia, con entusiasmo, con chiarezza di propositi quando loda, come nei Salmi.
Se questa è lode, allora che cos’è il lamento, cioè l’atteggiamento opposto? È il grido dell’uomo la cui vita viene meno; è il grido dell’uomo che sente venir meno il vivere in senso specifico, qualitativo; cioè la salute, il proprio progetto di vita, la propria capacità di amare, la propria dignità. Quando l’uomo sente venir meno queste cose, ecco il lamento; quando sperimenta il degradarsi del vivere, sapendo che il bene del vivere (cioè il bene dell’essere) è dato dalla vicinanza del Dio vivo, allora l’uomo grida: “non abbandonarmi, ritorna, voglio tornare a lodarti”.
Quello che l’uomo sperimenta in questo degradarsi del vivere di cui ha paura è chiamato l’ira di Dio, lo sdegno di Dio, Dio che lo abbandona: perché se la vita è Dio, il non vivere è l’essere abbandonato da Dio. E allora grida: “Pietà di me Signore, vengo meno, risanami; l’anima mia è tutta sconvolta, vieni a liberarmi, salvami per la tua misericordia”.
Il lamento è come l’opposto della lode, cioè della chiarezza, della coscienza dell’uomo che vivere è lodare Dio. E l’uomo, sentendo che qualche parte del suo vivere viene meno, attraverso la malattia, la solitudine, la sofferenza morale, l’abbandono, o la paura dell’avvenire, grida a Dio-vita, si lamenta con Dio-vita, perché Dio appare lontano da lui, e lo invoca.
Forse questo diverrà più chiaro se ci domandiamo chi sono coloro che nella Bibbia hanno pregato così. E ci viene in mente la figura di Davide. Gran parte dei salmi di lamento sono attribuiti a Davide, che è passato per esperienze di sofferenza, di umiliazione, di abbandono: egli però le ha vissute come credente, cioè gridando a Dio. Non le ha vissute nella disperazione di chi si sente solo, ma nel lamento di chi si sente abbandonato e sa che il suo grido raggiunge l’Amore. Davide ha vissuto queste esperienze.
Il profeta Geremia ha scritto lamenti molto simili a questi salmi nel vocabolario, nel modo di esprimersi. Anche lui ha vissuto, nel suo profetare, questa esperienza di solitudine e di abbandono e quindi ha espresso con un lamento – con un grido – la sua situazione. Giobbe nella sua sofferenza fisica e morale si è espresso così. Gesù sulla croce si è espresso così: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”.
Ogni cristiano può ripetere l’esperienza di Davide, di Geremia, di Gesù. Ogni cristiano malato, sofferente, solo, perseguitato: sono tante le circostanze di vita in cui il cristiano rivive queste realtà. Quanti nostri fratelli nella solitudine, nella sofferenza, addirittura nella persecuzione stanno vivendo il dramma di questo salmo!
Non dobbiamo pensare che chi è nella persecuzione o nella sofferenza per amore del Vangelo, per amore della giustizia o della libertà, viva questo stato con entusiasmo, con euforia; spesso può viverlo in una tremenda sofferenza di solitudine, con una paura che lo stringe interiormente, e allora anche lui grida così a Dio.
Quando noi recitiamo questo salmo ci uniamo con la preghiera a tutti coloro che soffrono; forse non possiamo raggiungere la loro sofferenza né con parole né con gesti di conforto; ma con questo salmo noi ci uniamo al lamento universale di coloro che invocano il Dio salvatore.
Lamento e lode nell’uomo contemporaneo
Mi viene in mente un’immagine drammatica per rappresentare questo stato di sofferenza e di abbandono. Gli anziani che sentendosi soli, si lasciano pian piano morire. Vedendo loro rivedo proprio l’immagine dolorosissima e drammatica della vita, della speranza e della fiducia che vengono meno.
Chi di noi, potrebbe descrivere simili sofferenze soltanto con parole se non le ha vissute lui stesso, non è stato vicino a coloro che le soffrono? Cerchiamo allora di capire che cosa significa questo lamento del salmo.
Parte dalla chiarezza di Dio, padrone della vita, che con amore ci dà la vita, e dalla lode che è vita; e il lamento che è lo sforzo, il tentativo dell’uomo di raggiungere il Dio della vita, che sentiamo quasi mancare nelle esperienze dolorose.
E ora possiamo anche intendere chi sono i nemici di cui ci parla ad un certo momento costui che sta pregando: “Invecchio fra tanti miei oppressori, arrossiscano e fremano i miei nemici, via da me voi tutti che fate il male!”. Possono essere nemici molto diversi: nemici politici come popoli conquistatori, oppressori, coloro che gli tolgono la libertà; anche nemici privati, prepotenti, sfruttatori, concorrenti sleali, persecutori. I nemici nei Salmi ricorrono molto spesso, ma sono sempre figure un po’ vaghe, un po’ evanescenti; non hanno una forma, un volto preciso, però sono sempre uomini senza Dio. Sono segno dell’impossibilità del mondo di vivere senza amore e senza lode; sono il segno del male, della conflittualità in cui cade l’umanità quando la dimensione della lode gratuita viene meno. Sono il segno della mancanza di lode e di esultanza, della mancanza di verità, del predominio della violenza, del fanatismo, là dove la lode, e quindi il senso del gratuito e dell’alterità, non sono più coltivati. Sono la situazione dell’uomo in un mondo egoista, in cui ciascuno si fa nemico dell’altro, preoccupato solo di sé, chiuso solo su sé stesso.
Questa dunque la situazione da cui parte il salmo. Potremmo ora chiederci, avviandoci verso la conclusione di questa riflessione:
- Che cosa vuol dire tutto ciò per noi?
- Che cosa ci dice il salmo con questa sua atmosfera, con questo suo modo di farci pregare?
Il salmo ci pone alcune domande che io vorrei ora girare a voi.
La prima domanda riguarda l’equazione che abbiamo sottolineato tra il lodare e il vivere: ho mai sperimentato in me l’equazione fra lode e vita, la gioia di perdersi nella lode gratuita, nella lode in cui l’uomo recupera in qualche maniera la libertà propria di Dio? La lode intesa così è superiore al ringraziamento, perché il ringraziamento in un certo senso si misura con il dono, potrebbe essere quasi concepito come una sorta di scambio. La lode è invece un perdersi al di là: “Noi ti lodiamo o Dio, per la tua grande gloria e potenza, ti lodiamo perché sei grande in te; ti lodiamo, o Signore, perché sei Dio”. O come dice talora la Bibbia, quasi regalando qualcosa a Dio (come se si potesse regalargli qualcosa): “A te, Signore Onnipotente, la lode, la gloria, la potenza, la benedizione”.
L’uomo che si perde in questa preghiera ritrova se stesso, cioè sente di essere nato per lodare, sente che in questo gesto gratuito e costruttivo egli ritrova la sua vera natura, ritrova la chiarezza del proprio essere fatto per amare e per donarsi nel gesto semplicissimo della lode.
Per questo forse la lode è così rara nella nostra preghiera, oppure ci appare come qualche cosa di aggiunto, di posticcio, di fittizio; ma proviamo a farla nostra e vedremo quale respiro interiore, quale libertà ci dona il metterci sinceramente e seriamente nel registro della lode.
La seconda domanda verte sul tema del lamento come verità del nostro vivere storico. Il lamento, che in questo modo abbiamo cercato di spiegare, esprime la voglia di vivere, l’aspirazione ad avere motivazioni di vita dal Dio della vita. Forse la definizione “preghiera di lamento”, che usano gli esegeti per indicare questo salmo, non è adatta per noi; potremmo chiamarla preghiera della sofferenza. Cioè la preghiera di chi, vivendo coscientemente le proprie sofferenze, le proprie miserie, le miserie e le sofferenze dei propri amici, di coloro che ama, e le sofferenze del mondo, le propone a Dio liberamente con cuore fiducioso.
La preghiera della sofferenza è purificatrice, trasforma chi prega così, trasforma le sofferenze in preghiera e trasforma questa preghiera in purificazione.
La terza domanda ci fa interrogare sull’oggetto di questo lamento. Di che cosa si lamenta l’uomo, qual è l’oggetto reale della preghiera della sofferenza? È tutto ciò che toglie la vita, tutto ciò che diminuisce l’uomo, il suo essere, tutto ciò che lo contrasta. E di qui cogliamo anche il senso di quello che potremmo chiamare la dignità della protesta per tutto ciò che avviene in noi e attorno a noi come forza di morte. Le proteste di tutti i popoli, per gli eccidi che si commettono; la protesta per tutte le realtà che uccidono la dignità dell’uomo.
Il salmo 16 sottolinea la dignità di questa protesta, una dignità religiosa, e indica pure le qualità che questa protesta deve avere. È una protesta che individua il male fino al fondo; non si ferma alle cause esteriori, ma scopre l’origine del male nel cuore dell’uomo. Una protesta che non è inerte, velleitaria, non si accontenta di gridare, ma che si scuote nella speranza, nel desiderio del meglio, nella volontà di cambiare se stessi e il mondo intorno a sé. È una protesta che si affida completamente a Dio, e quindi ha una dignità religiosa, giunge fino alle radici dell’esistenza.
Il Signore ascolta la mia supplica
E allora possiamo proporre qui l’ultima riflessione. Che cosa ottiene questo nostro modo di pregare così, questa macerazione nella preghiera della sofferenza che ha come sbocco ciò che viene detto verso la fine del salmo, che costituisce un cambiamento totale di scena? Il salmista ha pregato descrivendo se stesso: “Sono stremato dai lunghi lamenti; ogni notte inondo di pianto il mio giaciglio; irroro di lacrime il mio letto; i miei occhi si consumano nel dolore; invecchio fra tanti miei oppressori”. Sembra un uomo finito, ma improvvisamente il tono cambia: “Via da me voi tutti che fate il male; il Signore ascolta la mia supplica, il Signore ascolta la voce del mio pianto, il Signore accoglie la mia preghiera”. Tutta la preghiera di sofferenza diventa in questo momento tre volte grido di esaudimento: sono certo che il Signore mi ascolta, mi accoglie, mi riceve.
In questa macerazione della preghiera di sofferenza l’uomo avvilito e sfiduciato è giunto alla certezza che Dio è con lui. E questa certezza gli cambia la visuale dell’esistenza. I nemici non sono più i nemici; tutto ciò che gli sembrava ostile ora gli appare diverso. Più nulla può nuocere alla sua dignità, perché egli stesso si sente capace di vedere la realtà con occhi nuovi e di superare le difficoltà con un entusiasmo rinnovato.
È il culmine di questo salmo, di questa preghiera di sofferenza. È l’uomo sofferente, interiormente cambiato, che guarda in faccia alla sua malattia, alla sua solitudine in una maniera non più distruttiva di sé ma creativa; in una capacità di ricostruire il senso di ciò che prima gli appariva senza sbocco. Ecco dunque dove ci porta questa preghiera di lamento che nasce dal senso della lode e mette l’uomo nella sua verità di fronte a Dio.
Possiamo concludere chiedendoci: c’è qualche gesto che noi possiamo fare concretamente per esprimere la forza di questa preghiera? Quando preghiamo nella nostra preghiera parleremo di noi stessi e lasceremo parlare le sofferenze del mondo in noi?